Il lavoro e il senso che diamo alle nostre vite, a Milano. Una storia di oggi.

“Grazie che mi riceve. Non sapevo da chi andare e da chi cercare aiuto”.

“Cosa è successo?”

“Mi sono ritrovata da un giorno all’altro senza lavoro”.

Erika è ligure ed è venuta a Milano per studiare e lavorare. Si occupa di grafica.

Ed ecco il suo racconto: “non provavo  nessun attaccamento per l’azienda in sé o per i miei cinici colleghi trentenni che pensavano solo ai mutui e alle loro nuove case da ristrutturare (oltre a lamentarsi del troppo lavoro). Non era un bell’ambiente o il lavoro della vita, non c’era probabilmente una sola cosa che mi piacesse davvero, eppure l’ansia mi ha assalito.

Un’ansia costante mi faceva aprire gli occhi al mattino ancora prima della sveglia alla quale mi ero abituata e di cui mi lamentavo, dovevo costringermi a fare le cose con calma, a rilassarmi.

Non riuscivo a leggere più di una riga di libro senza distrarmi o un video stupido su youtube senza stopparlo prima della fine.

Ricordo di essere uscita una volta, per camminare e cercare di liberarmi dalla tensione.

Vedevo la gente che camminava di fretta: bambini con gli zaini da scuola e la mano salda in quella dei genitori, giovani come me con zaini e borse, donne truccate e uomini in completo andare tutti spediti verso la metro.

Io ero poco più che in pigiama, senza niente se non le chiavi e il telefono stretto nella mano, per non rischiare di perdere la minima vibrazione di una mail o chiamata di qualcuno che avesse bisogno di me. È proprio questo il punto: quando lavoravo per quanto potessi lamentarmi, almeno avevo l’illusione che qualcuno avesse bisogno di me.

Perché io potevo aiutare, sapevo fare qualcosa per cui ero desiderata.

Mi sono sentita inutile.

Non sono più uscita da quel giorno, non che fossi proprio in depressione, solo che non volevo vedere tutte quelle persone che sapevano dove andare e cosa fare.

Per una settimana sono stata attaccata al computer a scrivere mail e mandare CV.

Solo una settimana, ma sembrava davvero molto di più.”

Le ho sorriso, le ho dato un bicchiere d’acqua, l’ho fatta respirare e dopo un’ora di colloquio stava già meglio, quasi pronta per ricominciare.

“Brava Erika, hai fatto la cosa più giusta che potessi fare: affidarti a me e all’Accademia L’ora delle donne”.